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Ungheria: fallito tentativo di rivoluzione colorata

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Viktor_Orban_bancheIl governo di Viktor Orban ha operato le scelte che lo rendono impopolare presso le élites di Washington e Bruxelles. Ciò tuttavia non lo rende impopolare agli occhi degli ungheresi, che gli hanno attribuito un generoso consenso elettorale.

Diciamocelo pure senza mezzi termini, fuori dai denti: ciò a cui stiamo assistendo in Ungheria, con lo svolgimento in tre settimane di cinque manifestazioni a cui hanno finora partecipato decine di migliaia di persone, è palesemente un tentativo di rivoluzione colorata. Il primo, perlomeno il più disinvolto e spregiudicato, che avvenga all’interno dei confini dell’Unione Europea e della NATO, con l’esclusione dei goffi, fugaci e prontamente abortiti esperimenti in Italia (“Il popolo viola”) ed in Spagna (gli “Indignados”), nei quali comunque si registrò l’inconfondibile mano di George Soros. Questo costituisce indubbiamente un grosso salto di qualità nell’applicazione di tale strategia, fino ad oggi applicata soprattutto a danno di paesi esclusivamente “extracomunitari” ed al di fuori del Patto Atlantico.

Il primo caso fu la Romania di Ceausescu, nel 1989: Bush e Gorbaciov s’era incontrati a Malta appositamente per farlo fuori. La destabilizzazione della Romania, unico Stato socialista del Patto di Varsavia che sembrava destinato a non rimanere investito dall’effetto domino che stava invece travolgendo tutti gli altri paesi fratelli, fu portata a termine con successo nel Natale di quell’anno, con la cattura, il processo farsa e la fucilazione dei coniugi Ceausescu. Cosa ne sia stato poi della Romania, è cosa ben nota a tutti. Si potrebbe comunque dire che, in generale, tutto il cosiddetto “campo socialista” in quegli anni sia stato destabilizzato ricorrendo a fondazioni, ONG, movimenti d’opinione e quant’altro che venivano finanziati dall’Occidente: dalla Polonia alla Germania Est, dalla Cecoslovacchia all’Ungheria, senza dimenticare neppure l’isolata Albania e men che meno il gigante sovietico, minato e smembrato per ultimo, dopo che i “fratelli minori” dell’Europa dell’Est erano già stati opportunamente “eutanasizzati”.

Quindi fu il turno della Serbia, paese fiero che neppure le bombe della NATO erano riuscite a domare, nel 2000. Là, per la prima volta, si vide il pugno chiuso di Otpor, che sarebbe poi apparso sistematicamente in tutte le occasioni successive. Laddove non riuscirono i bombardamenti, poterono i media e le piazze. A quel punto il sistema era ben oliato e collaudato, e venne applicato con successo dall’amministrazione Bush in Libano (la “rivoluzione dei cedri”), in Georgia (la “rivoluzione delle rose”), in Kirghizistan (la “rivoluzione dei tulipani”), in Ucraina (la “rivoluzione arancione”), oltre ad alcuni e fallimentari tentativi attuati in Russia e Bielorussia. Con l’arrivo di Obama il metodo è stato non soltanto ripreso ma addirittura rilanciato con le “primavere arabe”, che hanno avuto il loro clou in Egitto, in Tunisia ed in Libia, dove pur d’ottenere l’abbattimento di Gheddafi e della Jamahiriya non s’è esitato a ricorrere nuovamente alle armi, ed in Siria, dove per poco non si ripeteva il copione libico. Da non dimenticare che neppure il piccolo e povero Yemen è sfuggito ad una simile strategia. Dal momento che il predecessore Bush in Ucraina nel 2004 aveva fallito, non riuscendo a sottrarre il paese ai suoi rapporti con la Russia, l’amministrazione Obama ha deciso di riprovarci scatenando nell’inverno 2013-2014 una riedizione della “rivoluzione arancione” rivelatasi di successo nel breve termine, con la defenestrazione di Yanukovich, ma disastrosa nel medio e nel lungo, con la perdita della Crimea e la sempre più inoccultabile sconfitta di Kiev nella guerra del Donbass.

Nel frattempo in Ungheria s’è insediato un governo che ha cominciato a stabilire buoni rapporti di collaborazione con la Serbia, la Russia e la Cina, e che prende sempre più sul serio il suo ruolo nella costruzione di un’alleanza “euro-asiatica” tra Europa, Russia ed Asia. Un governo che ha voltato le spalle ai diktat di Bruxelles, in particolare in materia finanziaria ed economica, col risultato di veder crescere il proprio paese evitandogli la fine di altre nazioni europee, come per esempio l’Italia, e che infine s’è pure opposto al varo delle sanzioni contro la Russia, schierandosi di fatto con quest’ultima nella contesa che la vede opporsi all’Occidente riguardo la crisi ucraina. Certo, è un governo che in ogni caso ha le sue ambiguità: non parliamo di un governo socialista, e nemmeno “antimperialista” nel senso classico della parola. Però risulta scomodo e non funzionale agli interessi egemonici di Washington in Europa, e della sua madama al guinzaglio Bruxelles. E per questo motivo dev’essere rimosso, mobilitandogli contro tutte le risorse politiche e sociali filo-occidentali di cui abbonda il paese. Perché in Ungheria, come del resto in tutta l’Europa non solo orientale, dalla caduta dei regimi comunisti ad oggi l’Occidente “euro-americano” ha attecchito con successo, impiantando ed inoculando la sua cultura, la sua mentalità ed i suoi stili di vita, soprattutto in termini politici. Anzi, oggi come oggi è forse più facile trovare degli zelanti atlantisti nell’Europa dell’Est che in quella dell’Ovest, dove sia pur nascostamente e sottovoce cominciano ad affacciarsi i primi scettici o quantomeno i primi “possibilisti” disposti a prendere in considerazione delle alternative.

L’Ungheria, da questo punto di vista, nel panorama di quella che un tempo veniva definita come “l’altra Europa”, costituisce un esempio a sé stante. Il governo di Viktor Orban ha operato le scelte che abbiamo già descritto: scelte che decisamente lo rendono impopolare presso le élites di Washington e Bruxelles. Ciò tuttavia non lo rende impopolare agli occhi degli ungheresi, che gli hanno attribuito un generoso consenso elettorale. Ed anche questo è un classico delle rivoluzioni colorate: si riempiono le piazze con minoranze rumorose, la cui identità politica è ben lontana da quella della maggioranza della popolazione. È stato così in Ucraina, in Libia, dappertutto.

Ufficialmente le proteste in Ungheria sono cominciate tre settimane fa per una discussa volontà del governo di tassare internet: finora ci sono state ben cinque manifestazioni, con la partecipazione di decine di migliaia di persone. L’ultima ha visto affluire almeno diecimila attivisti, sebbene il loro numero sia stato gonfiato ed addirittura decuplicato dagli organizzatori in combutta coi media “euro-americani”. Ora, è chiaro anche ai più ingenui che solo una minoranza di giovani benestanti, privi d’altre ben più pressanti preoccupazioni sociali ed economiche, possano indignarsi ed addirittura scendere in piazza a causa di una tassa sul web. I loro problemi non sono la sicurezza, il lavoro, il potere d’acquisto, l’istruzione o la sanità: no, la tassa sul web. E allora questo ci fa capire tutto.

Quello che sta avvenendo in Ungheria è uno scontro fra due diverse visioni del paese, e di conseguenza anche dell’Europa e del mondo, fra due campi opposti. Ma è anche una lotta fra due diverse espressioni della società, fra una minoranza più o meno benestante che guarda a Bruxelles e agli Stati Uniti e che ha il tempo di preoccuparsi per internet, salvo poi allargare la protesta anche alla corruzione, e le classi popolari che silenziosamente, ad ogni appuntamento elettorale, concedono abbondantemente la loro fiducia a Viktor Orban.

Chi prevarrà? Difficilmente i settori più filo-occidentali potranno giocare sporco in Ungheria come hanno fatto altrove: Budapest è pur sempre un membro della NATO e dell’Unione Europea. Non si possono mettere in atto sceneggiate troppo truculente. Si cercherà invece di logorare lentamente Orban, sottoponendolo a continue polemiche ed accuse funzionali ad alimentare altrettanto continue manifestazioni contro il suo governo, nella speranza di delegittimarlo anche a livello interno facendolo così cadere in disgrazia presso i suoi tanti sostenitori. Ma, in Ungheria come altrove, l’elettore ragiona soprattutto con le proprie tasche: finché Orban riuscirà, anche grazie alle sue politiche per così dire “anticonvenzionali” agli occhi del “fronte atlantista”, a garantire all’Ungheria crescita e prosperità, insieme ad ordine e sicurezza, la maggioranza dei cittadini continuerà a stare dalla sua parte. Questo indipendentemente dal fatto che Orban possa piacere o non piacere, che sia progressista o reazionario, europeista o euro-asiatico, simpatico o antipatico.

Come già è avvenuto anche con le manifestazioni del passato, anche queste molto probabilmente passeranno in cavalleria. Ve ne saranno altre, che presumibilmente faranno la stessa fine, oppure no. Tutto dipenderà, essenzialmente, da Orban. E soprattutto dai suoi concittadini.

http://www.statopotenza.eu/15458/il-fallimentare-tentativo-di-rivoluzione-colorata-contro-orban

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